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QUELLO CHE PRENDE GLI SCHIAFFI


Teatro Carignano – Torino [7/5/2013 – 19/5/2013]
da Leonid Nikolaevič Andreev

libera versione e regia Glauco Mauri
con Glauco Mauri e Roberto Sturno

Col carisma che gli deriva dall’età e da una presenza scenica tra le più significative della prosa italiana degli ultimi decenni, Glauco Mauri si veste da direttore di una sgangherata compagine di circensi, ma svolge in realtà il ruolo di cerimoniere di una amara riflessione sulla condizione umana. La leggerezza e l’ironia con cui Mauri tratta la materia dell’allestimento non mitigano ma rendono solo più fiabesco il disincanto malinconico che attraversa i due atti e che prelude al tragico esito finale.

La compagnia Mauri-Sturno che da più di trent’anni va arricchendo il suo repertorio con la rilettura dei classici del teatro e delle letteratura europea, è alla seconda stagione di repliche di una delle opere più note di Leonid Nikolaevič Andreev (1871-1919), drammaturgo che fu il principale esponente dell’espressionismo in lingua russa, che ebbe in Italia tra i primi estimatori e traduttori Piero Gobetti e Ada Prosperi, e che di lì in poi ha conosciuto numerose fortunate edizioni dei suoi testi.

Una compagnia di girovaghi, che sembra uscita da certi film di Fellini o da un dipinto rosa di Picasso, incontra sulla sua strada uno scrittore, famoso e ammirato, che implorante chiede di poter dismettere il suo posto nella società ed entrare a far parte del mondo della scena. Una volta accettato, questo protagonista dall’itinerario quasi pirandelliano diventerà uno dei clown: “quello che prende gli schiaffi”, appunto. Sublimando così nel ridicolo e nel farsesco del palco la rabbia e la delusione che la vita gli aveva riservato. Ma il Papà Briquet-Glauco Mauri, direttore della compagnia, con la saggezza degli anni anni e della canizie, subito l’ammonisce sull’impossibilità di un simile progetto di fuga. E infatti presto cominciano a emergere complicate infide e spietate dinamiche relazionali anche tra i componenti di questa nuova famiglia, laddove l’intellettuale aveva creduto di potere trovare un obliante estremo rifugio. Il grosso della vicenda ruota attorno a una docile creatura, una giovane ballerina muta, innamorata all’acrobata, ma in procinto di essere data in moglie dal suo padre-agente al turpe e grasso riccone del caso. L’intellettuale-clown, con l’intransigenza utopistica che non abbandona mai taluni uomini di pensiero, provandosi a evitare quest’epilogo che gli apparirebbe insopportabile trionfo di ingiustizia, lo risolverà destinando se stesso e gli altri alla tragedia. Ciò che in fondo era il prevedibile esito nichilista della sua parabola fin dal primo momento. In questo senso l’opera di Andreev prende la forma di un apologo critico, quasi spietato, sull’inadeguatezza di certa cultura e del peso di paradigmi e aspettative che essa genera in chi rinchiudendovisi ne vede limitata e compromessa la capacità di capire e di adeguarsi alla logica del mondo, e preferisce rifiutarla e finanche annullarsi.

Si tratta, a ben guardare, di un tema tipico del decadentismo europeo, e soprattutto della cultura e della letteratura russa. Andreev lo interpreta richiamandosi in fondo a quella sola possibilità che risiede nell’innocenza dello sguardo degli autentici pagliacci, che con la malinconica musica dei loro strumenti accettano il ruolo di spettatori della vita, e se ne fanno cantori e testimoni, anche se carichi di tristezza.
È senza dubbio un merito di Mauri quello di avere lavorato su questo testo con delicatezza, aiutato dalle belle scene di Carosi, realizzando uno spettacolo ben recitato che non tralascia gli aspetti di riflessione che costantemente lo percorrono. La maestria con cui un materiale anche penoso diviene godibile è in fondo la vera arte del teatro.

Roberto Balzano