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La “doppia preferenza di genere”: un tassello nel gender mainstreaming


di Michela Felicetti

Premessa

Il dibattito sull’uguaglianza e sulla differenza è stato una costante del ragionamento femminista. Da tale dibattito ha preso corpo la questione se il raggiungimento della parità richieda trattamenti uguali, a discapito delle differenze, o se di tali differenze si debba tener conto prevedendo trattamenti differenziati.
Generalizzando e sintetizzando una letteratura estremamente composita, nella prospettiva dell’uguaglianza, il genere è considerato irrilevante nell’attribuzione dei diritti o nella considerazione del valore sociale, in quella della differenza vi è il riconoscimento e la valorizzazione delle specificità femminili, siano esse fisiche piuttosto che culturali (Mitchell and Oakley, 1986). Nel primo caso l’oggetto è stato soprattutto la rappresentazione di una sfera pubblica in cui raggiungere la parità con gli uomini attraverso l’eliminazione dei ruoli di genere. Le radici di questa visione sono rinvenibili nelle lotte dei primi del Novecento tese ad ottenere il diritto di voto, i diritti all’interno del matrimonio, il riconoscimento del divorzio, l’accesso all’istruzione e così via.
I traguardi raggiunti, soprattutto nella prima ondata femminista, sono stati di fondamentale importanza, ma il rischio insito in questa visione è quello che i valori di riferimento siano quelli del gruppo dominante, quello degli uomini, ed all’interno di esso, del gruppo egemone.
Nel secondo caso vi è la rivendicazione della differenza e l’istanza di strumenti specifici per il raggiungimento degli obbiettivi sociali e politici. Si tratta qui di raggiungere un uguaglianza di risultati attraverso mezzi che possono essere diseguali. In altri termini l’ accesso alle posizioni di potere non deve avvenire necessariamente mettendo in rilievo i tratti della mascolinità, piuttosto esaltando le peculiarità femminili. Alcune posizioni, poi, mettono in discussione la desiderabilità stessa dell’ottenimento di obbiettivi considerati maschili e del conseguimento di una uguaglianza che ha come punto di riferimento la parte influente del genere maschile.
Tale approccio si presta, però, al mantenimento di una struttura sociale caratterizzata dalla disuguaglianza, in quanto l’enfatizzazione della differenza tende a rinforzare l’idea di un genere debole e dipendente attribuendo un vantaggio agli interessi maschili. Rivendicare la differenza di genere, per le studiose dell’uguaglianza, è sinonimo di inferiorità ed è una strategia dannosa.
Cambiando prospettiva, le categorie dell’uguaglianza e della differenza stesse possono essere assunte come concettualmente relative. L’uguaglianza e la differenza vanno ripensate in relazione agli attori sociali che le pongono in essere stabilendo gli standards e tenendo presente che uguale non significa identico. Se lo standard non viene posto dall’esterno, ma rappresenta il punto di vista maschile, l’uguaglianza si può raggiungere solo al prezzo di cancellare la differenza o considerarla una diminuzione. La percezione della differenza come inferiorità ed esclusione è il frutto del ragionamento filosofico, incentrato sull’unità come essenza di cui è imbevuta la cultura occidentale. Eppure, secondo diverse teorie, le differenze apportate dai gruppi sottorappresentati costituiscono una risorsa, piuttosto che una minaccia per la comunità.
Tali ragionamenti possono essere inquadrati in quella che, secondo Ruspini (2009) è la visione post-moderna, sintesi delle teorie, tra le altre, dell’uguaglianza e della differenza. In quest’ottica, infatti, non vi è un’attribuzione esclusiva di validità ad una teoria a discapito di altre, quanto la contestualizzazione delle esperienze e dei punti di vista.
La prospettiva della diversità elaborata da Squires (1999) si muove in questo solco in quanto mira a decostruire la dicotomia uguaglianza/differenza. Secondo Squires, laddove l’approccio dell’uguaglianza mira semplicemente ad “aggiungere” le donne in uno schema maschile ed androcentrico, gli approcci della differenza e della diversità tendono alla trasformazione delle norme dominanti. Il primo ha come obbiettivo il capovolgimento dell’ordine patriarcale, il secondo quello di spostare il ragionamento da tale ordine su elementi del tutto nuovi. Dunque l “andare oltre” il dibattito uguaglianza/differenza non significa solo cercare una sintesi, quanto usare nuove prospettive che esulino dai costrutti sociali dell’ordine patriarcale, della mascolinità e della femminilità.
Il mio obbiettivo è quello esaminare le leggi sulle quote di genere alla luce delle teorie menzionate per cercare di capire se il nuovo strumento della doppia preferenza costituisca un passo in avanti nel riequilibrio del rapporto tra persone di sesso diverso all’interno delle assemblee elettive
Partendo dal dato della sottorappresentanza femminile nelle istituzioni politiche faremo riferimento ai motivi a favore e contro le quote ed analizzeremo la recente legge sulla doppia preferenza di genere adottata da consiglio regionale della regione Campania.
Le quote, come forma di azione positiva, notoriamente avversate da chi abbraccia posizioni liberali, sono controverse anche tra le femministe. Una parte di esse ritiene infatti , che le quote classifichino i gruppi sottorappresentati come intrinsecamente deficitari, con ciò stigmatizzando una presunta essenza inferiore ed una cittadinanza di seconda classe. Il ragionamento più usato contro le quote è che esse, compromettendo le valutazioni sul merito, costituirebbero una forma di discriminazione al contrario.
Tra gli argomenti a favore delle quote di genere vi è quello incontrovertibile per cui la componente femminile è penalizzata in quanto sconta gli effetti storici della fase in cui alle donne venivano negati di diritti politici. Accanto a ciò si deve aggiungere quello di chi ritiene che le donne possano apportare un’esperienza ed un valore specifico all’azione politica.
In Italia l’introduzione delle quote è stata bloccata, in passato, in sede parlamentare. Tale arresto è stato avallato dalla Corte Costituzionale, con la motivazione che le quote non erano finalizzate a “rimuovere gli ostacoli per il raggiungimento di determinati risultati”, ma avevano l’obbiettivo di “attribuire direttamente i risultati”.
La legge elettorale della regione Campania (n.4/2009) si presenta come un’innovazione nel contesto italiano in quanto lo strumento della doppia preferenza rappresenta una misura nuova di promozione delle candidature femminili avente lo scopo di riequilibrare il rapporto tra persone di diverso sesso all’interno delle assemblee elettive. Essa permette all’elettore di esprimere, in occasione del rinnovo del consiglio regionale, una doppia preferenza facoltativa, a patto che la seconda sia data ad un candidata o candidato di genere diverso del primo.
Questa legge, adottata dal Consiglio regionale della Campania, ha trovato terreno favorevole in seguito alla sentenza n.4/2010 della Corte Costituzionale. Quest’ultima ha dichiarato infondata la questione di legittimità costituzionale sollevata dal Governo relativamente all’introduzione della doppia preferenza di genere da parte della legge elettorale campana.
Prima di questa sentenza bisogna ricordare le riforme costituzionali del 2001, relative agli artt. 51 e 117, le quali avevano rafforzato il principio della parità di accesso alle cariche elettive. Il primo, al comma 1, quando parla di cariche elettive sancisce: “a tal fine la Repubblica promuove con appositi provvedimenti le pari opportunità tra donne e uomini”. Il secondo, al comma 7, stabilisce che le leggi regionali “rimuovono ogni ostacolo che impedisce la piena parità degli uomini e delle donne nella vita sociale, culturale ed economica e promuovono la parità di accesso alle cariche elettive”.
Nonostante queste leggi costituzionali, prima della legge sulla doppia preferenza di genere e della sentenza n.4/2010 della Corte Costituzionale, il panorama italiano era rimasto in una fase di stallo nella promozione dell’accesso alle candidature femminili.
La misura della doppia preferenza di genere sembra aggirare il cul de sac cui si era arrivati attraverso il dibattito sulle quote rosa riproponendo la dicotomia uguaglianza/differenza e promette, se estesa ad altre regioni, di fare un passo avanti nell’eliminazione dello squilibrio di genere.

1.Eguaglianza, differenza, diversità.
Recentemente nella letteratura scientifica e nella giurisprudenza italiana si è evidenziata una contrapposizione tra disposizioni antidiscriminatorie, basate sul principio di eguaglianza, ed azioni positive. Le ultime inficerebbero il principio di eguaglianza e non potrebbero costituire la valida ratio di una normativa sulla rappresentanza di genere. Questo lavoro intende sostenere che mentre le norme le nuove proposte definite di democrazia “paritaria”, coerenti con la teoria dell’uguaglianza, fanno cadere molte delle ragioni negative comunemente connesse alle quote di genere, le azioni positive continuano ad essere auspicabili sulla scorta di un modello di cittadinanza consociativo. Di seguito sono esposte le ragioni per cui, in riferimento alla diversità, in generale, una parte della teoria liberale ed egualitaria presenta una discontinuità rispetto all’uguaglianza di risultato e le azioni positive ed i motivi a favore di queste ultime presenti, invece, nella visione di un modello di cittadinanza consociativo.
Il dibattito sull’eguaglianza è stato particolarmente acceso tra coloro che si muovono nel solco della tradizione liberale, ed, in particolare dell’egualitarismo liberale. La discussione si è focalizzata non tanto sull’eguaglianza di opportunità o di risultati, quanto sulle diverse rappresentazioni dell’uguaglianza di opportunità. Per i liberali egualitari non bisogna valorizzare il talento, scelta che sarebbe moralmente arbitraria (Dworkin,2000), quanto lo sforzo e le ambizioni. L’uguaglianza, da questa prospettiva, diventa qualcosa da meritare in quanto dipendente dalle scelte e dalla responsabilità di ciascuno (Rawls,1972), mentre la redistribuzione di risorse aggiuntive avviene sulla base del bisogno e non su quella delle diversità culturali, religiose ed etniche.
Secondo Squires (1999) questa tradizione di pensiero, in primo luogo, non chiarisce come sia possibile distinguere tra talento ed ambizioni o individuare nella vita di ciascuno cosa è il risultato di una scelta individuale e cosa non lo è. In secondo luogo, pur cercando di eliminare la diseguaglianza sociale, in tale tradizione, non se ne trova un’analisi e soprattutto non si trovano riferimenti alle sue cause. Dello stesso tenore le osservazioni di Iris Young (2000) quando rileva che il dibattito sulla giustizia sociale implica “strutture istituzionali” la “cui giustizia” non viene considerata. In effetti, molti critici della teoria liberale, osservano come non basti che le leggi vengano applicate in modo uguale, se non si esamina come sono state formulate ed, in quali termini, il processo è stato partecipativo. L’esclusione strutturale di alcuni gruppi dai processi di elaborazione delle leggi porta ad una distorsione delle regole sull’uguaglianza in una fase successiva. Se si riflette su quest’ultimo punto e lo si porta nel dibattito sulla rappresentanza di genere, le azioni positive, da alcuni giudicate arbitrarie, assumono contorni diversi.
La discussione tra azioni antidiscriminatorie e azioni positive richiama la riflessione più ampia sull’uguaglianza e la differenza di genere.
Nella prospettiva dell’uguaglianza il genere deve essere considerato irrilevante nell’azione politica ed in questo senso disposizioni neutrali sono da preferire.
In altri termini, visto, che le differenze di genere vengono perpetuate per favorire gli uomini ed escludere le donne, l’obbiettivo dell’azione politica deve essere quello di prescindere dal genere cercando di produrre una normativa comune per uomini e donne. L’obbiettivo è quello di ricercare l’imparzialità in modo più rigoroso nell’ambito della società liberale.
L’approccio della differenza si pone in modo opposto rispetto a quello dell’uguaglianza, in quanto non solo rigetta l’assimilazione con il modello maschile, quanto esalta le differenze femminili. Le caratteristiche specifiche delle donne non sono subordinate rispetto a quelle degli uomini e, queste ultime, non sono parte di un modello cui uniformarsi, piuttosto vanno a costituire una struttura, quella della società liberale, viziata in partenza da uno schema androcentrico. Come fa notare Squires, auspicare la neutralità di genere rende complici delle istituzioni che hanno screditato le donne.
In questo quadro la dicotomia tra teoria dell’uguaglianza e teoria della differenza è difficilmente riconducibile ad una sintesi e per questo si è cercato di superare il dilemma che esse strutturano elaborando un nuovo approccio della diversità.
Seguendo l’approccio della diversità, la teoria dell’uguaglianza, si basa su una mistificazione od omissione di fondo: la natura patriarcale del sistema su cui vengono costruite le azioni tese a correggere la disuguaglianza. Allo stesso tempo la teoria della differenza non contiene una riflessione sul carattere socialmente costruito della “mascolinità” e della “femminilità”. Per queste ragioni l’approccio della diversità teorizza la diversità all’interno della categoria delle donne e degli uomini oltre che fra donne e uomini e si riferisce alla strategia del gender mainstreaming diffusasi negli anni ’90, basata sulla ricerca delle discriminazioni indirette derivanti dalla strutture esistenti e sulla loro riorganizzazione in modo da trattare donne e uomini in modo equilibrato.
Parità, azioni positive e gender mainstreaming non vanno viste come strategie contradditorie bensì come strategie complementari. Secondo Rees (1999) le prime due andrebbero attuate nel breve termine, mentre l’ultima sarebbe più utile a lungo termine.
In Italia la giurisprudenza costituzionale sulle azioni positive non è favorevole, ma il Governo con il ricorso contro la legge n.4/2009 della regione Campania ha cercato di rendere ancora più esiguo lo spazio delle azioni anti-discriminatorie e di dilatare quello delle azioni positive ritenendo che lo statuto della regione Campania attraverso la doppia preferenza di genere ponesse in essere un’azione positiva. Di fatto la misura della “doppia preferenza di genere” è formulata in modo neutrale e secondo la Corte Costituzionale, configura un’azione antidiscriminatoria e non è in nessun modo volta prefigurare un risultato.
Nonostante la maggiore attenzione riservata alla rappresentanza delle donne nelle assemblee elettive da parte degli organi politici internazionali e giudiziari, i recenti interventi di riforma costituzionale e le pronunce della Corte Costituzionale, il raggiungimento della parità in Italia è più lontano rispetto alla gran parte dei paesi europei.
2. I fattori che influenzano l’accesso delle donne alle cariche elettive.
La letteratura scientifica sull’argomento della rappresentanza di genere Dahlerup, 2010; Norris, 2006; Portland 2002) ha individuato, tra le variabili che maggiormente influenzano l’accesso delle donne alle cariche elettive, i sistemi costituzionali, i sistemi elettorali, le quote legali e i regolamenti dei partiti.
I diritti costituzionali, in particolare i diritti civili e politici nella declinazione del divieto di discriminazione di genere o di azione positiva, incorporati nelle previsioni costituzionali esercitano un’influenza fondamentale. Nel caso italiano le leggi costituzionali del 2001 hanno impresso una svolta in un contesto statico sul fronte delle azioni per la parità fornendo gli strumenti per arginare la discriminazione nell’accesso alle cariche elettive.
L’approvazione delle leggi costituzionali n.2 e n.3 del 2001 aveva demandato alle regioni la promozione “in condizione di parità dell’accesso alle consultazioni elettorali” è stata seguita dalla riforma dell’articolo 51 Cost. attraverso la legge costituzionale n.1 del 2003 che si basa sulla “promozione di appositi provvedimenti per le pari opportunità tra donne e uomini” nell’accesso agli uffici pubblici ed alle cariche elettive. Tali disposizioni sono state accompagnate da una discussione dottrinaria sulle azioni da intraprendere per rendere effettivo il disposto costituzionale. In particolare ci si è chiesti se mettere in atto azioni radicali, come le riserve di posti nelle liste elettorali, o provvedimenti propedeutici come forme di finanziamento per le campagne elettorali o la previsione di spazi sui mezzi d’informazione. Su questo punto è stata decisiva la sentenza della Corte Costituzionale n. 49 del 2003 attraverso la quale è stata rigettata la questione di costituzionalità sollevata dal Governo sullo statuto della Valle d’Aosta del 2002 in quanto contenente la previsione di ricomprendere nelle liste candidati di entrambi i sessi. Tuttavia un indirizzo in questo senso è probabile che lo abbia dato l’ordinanza della Corte Costituzionale a favore dell’obbligo di riserva di 1/3 dei posti dei componenti delle commissioni di concorsi nelle pubbliche amministrazioni alle donne (d. lsg. 2 febbraio 1993). Infatti ad oggi la gran parte delle leggi regionali contiene delle riserve di posti per le donne: Puglia e Lazio hanno disposto che le liste non possano contenere più dei 2/3 delle candidature ad un medesimo sesso, mentre Toscana e Sicilia prevedono un sistema alternato di candidature in relazione al sesso. D’altra parte la legge del 2004 sull’elezione del Parlamento Europeo non è stata riformata e contiene ancora la previsione per cui le candidature di ciascun sesso non possono essere rappresentate in misura superiore ai 2/3.
E’ anche vero che i provvedimenti appena citati sono coerenti, ed in molti casi deficitari rispetto al panorama costituzionale internazionale: Il Conseil Constitutionnel non ha eccepito alcun che rispetto alla legge che sanziona le elezioni con lo scrutinio di lista laddove vi sia differenza superiore all’unità tra candidati di sesso diverso. In Belgio e Portogallo la Costituzione è stata modificata per garantire una copertura costituzionale alle quote elettorali, infatti in quest’ultimo è stata emanata una legge che introduce, per le elezioni europee, politiche ed amministrative una quota di genere dei 2/3, a pena dell’esclusione della lista che contenga più di tale percentuale di candidati dello stesso sesso. La Costituzione spagnola non ha previsto alcuna riforma e tuttavia alcune comunità autonome hanno implementato riserve di posti nei propri Parlamenti.
Per quanto riguarda i sistemi elettorali, essi vanno considerati sotto una pluralità di aspetti se si tenta di analizzare in che modo influiscono sulle candidature e le elezioni di donne. Tra questi certamente va considerata la formula elettorale, determinante per decidere come vengono conteggiati i voti nella distribuzione dei seggi, la soglia di sbarramento e cioè la percentuale minima per garantire al partito una rappresentanza, la grandezza del collegio cui è collegato il numero di seggi in esso contenuti.
Notoriamente i sistemi elettorali vengono classificati utilizzando tre tipologie, posto che ognuna di esse contiene delle varianti: sistema maggioritario, sistema proporzionale e sistema misto.
La teoria secondo cui i sistemi di tipo proporzionale abbiano un’influenza positiva sulle percentuali di donne elette è stata sostenuta da una serie di studi (Lijphart, 1994; Norris,1985; Matland, 1988) anche se qualcuno ha ridimensionato la portata di tale impatto (Salomond,2006). Comunque il fatto che la misura delle quote di genere sia più compatibile con un sistema di tipo proporzionale (Dahlerup e Freidenvall, 2008) difficilmente può essere messo in discussione.
Secondo Norris (2006) i sistemi proporzionali possono essere considerati maggiormente favorevoli alla rappresentanza femminile in ragione del fatto che ciascun partito deve presentare in ogni circoscrizione plurinominale una lista di candidature di cui è responsabile. In questa ottica tenderà ad includere il maggior numero possibile di differenze sociali attraverso candidate e candidati che ne siano espressione, viceversa, nei sistemi uninominali a turno unico, i partiti sono incentivati a candidare chi è in grado di massimizzare le preferenze senza porre attenzione alle caratteristiche dei candidati o candidate. Inoltre, come già evidenziato, quando ci sono una pluralità di seggi a disposizione, mettere in pratica le quote, risulta più semplice rispetto ai collegi uninominali dove si dovrebbero creare disposizioni normative ad hoc come in Inghilterra e Francia.
Altro fattore di successo nell’elezione delle candidate femminili è costituito dalla tipologia delle liste: le liste chiuse potrebbero favorire le candidate laddove i partiti le collocassero nei primi posti della lista. Nelle liste aperte, di contro, gli elettori scelgono tanto il partito quanto la candidata o il candidato e questo può nuocere o favorire le donne in relazione al tipo di attitudine culturale degli elettori.
Le donne che aspirano ad essere elette, devono essere selezionate a due livelli: dal partito e dagli elettori, tuttavia la decisione stessa di candidarsi non dipende solo dall’ambizione personale, ma da fattori esterni. Il passaggio da aspiranti, a candidate, ad elette, varia in relazione al paese in cui il processo prende corpo e dipende anche dalla struttura e dalle regole di ciascun partito (Portland,2000). Nella fase che precede la formalizzazione della candidatura uno del fattori che influisce sulla decisione di candidarsi è la presenza sul territorio di organizzazioni ed associazioni in grado di sostenere le candidature femminili attraverso risorse materiali ed immateriali.
Per quanto riguarda la selezione delle candidate o dei candidati il ruolo fondamentale lo svolge il partito e le regole che esso si da. Infatti le possibilità di candidarsi cambiano a seconda che le decisioni vengano prese dai leaders di partito, da un gruppo di dirigenti politici o da un numero consistente di iscritti al partito. L’ultimo caso presuppone l’esistenza di regole burocratiche, chiare, precise e dettagliate delle procedure di selezione delle candidate o dei candidati, mentre il primo presuppone che le decisioni vengano prese dal leader facendo leva su un tipo di autorità carismatica più che legale-razionale per cui le possibilità di essere candidate o candidati aumentano quanto più si è stati fedeli al partito.
Tuttavia le chances di essere candidate/i sono collegate anche alla militanza svolta nel partito ed alla carica ricoperta nel collegio: in genere la ricandidatura di un esponente politico conosciuto sul territorio, con alle spalle una militanza politica di lungo corso e’ preferibile a quella di candidate o candidati nuovi. Alternativamente è visto con favore il fatto di ricoprire cariche pubbliche nel mondo delle professioni e dell’associazionismo. Da ciò si desume come, le candidature femminili, siano agevolate dall’esistenza di regole burocratiche ben determinate, infatti laddove vi siano gruppi di potere formati da uomini e consolidati nel tempo è più difficile entrare se donne.
Nella fase successiva, quella delle elezioni, rileva la tendenza degli elettori a votare per le donne o a preferire uomini. Alcuni studi hanno dimostrato come per l’elettore sia di primaria importanza il partito e, dunque, il simbolo elettorale, più che il candidato o la candidata. Con le liste chiuse o bloccate, questo argomento diviene incontrovertibile e dunque l’essere nominati dal partito è di fondamentale importanza. Viceversa nei sistemi proporzionali con liste aperte, quale il caso delle elezioni regionali italiane, l’essere donne o uomini può essere un vantaggio o uno svantaggio, in quanto è l’elettore che decide chi portare avanti, per cui se le candidate pongono in essere una strategia comune, la percentuale di donne elette è suscettibile di aumentare in modo rilevante. Il problema può essere risolto rispondendo alla domanda se sia più facile convincere gli elettori a votare per le donne in lista o i dirigenti dei partiti a collocare le donne nelle posizioni alte in presenza di liste chiuse. Alcuni studi hanno dimostrato che per le donne è più vantaggiosa quest’ultima situazione.
In generale i sistemi proporzionali sembrerebbero più congeniali all’elezione di candidate donne rispetto ai sistemi maggioritari e, questo, perché nei sistemi proporzionali la circoscrizione è più grande e, di conseguenza, anche il partito, per cui il numero di seggi è sicuramente elevato rispetto ai sistemi maggioritari. Avendo a disposizione più seggi le candidature possono essere diversificate in modo da attrarre una varietà di elettori attenti al genere. Inoltre presentare candidature equilibrate rispetto al genere serve a garantire una situazione di equità assicurando una situazione di armonia all’interno del partito. Esiste poi, nei sistemi proporzionali, una tendenza al “contagio” tra i partiti, nel senso che le politiche adottate dai partiti maggiori vengono imitate dagli altri.
Un altro fattore chiave nella rappresentanza femminile è connesso alla questione delle quote legali. In alcuni casi, la concretizzazione di questa misura, avviene con un linguaggio neutro riferendosi a donne e uomini insieme. Tuttavia l’efficacia delle quote dipende dal grado di specificità con cui sono poste in essere. Ovviamente una disposizione vaga non garantisce le stesse possibilità che, invece, garantiscono regole dettagliate per la selezione ed il posizionamento delle candidature femminili.
Le quote di partito, ossia quelle quote stabilite negli statuti dei partiti, sembrano essere maggiormente efficaci quando più partiti di grandi dimensioni le mettono in pratica, quando è prevista una percentuale femminile di genere alta ed è statuito che le donne rivestano una posizione specifica nella lista. Infine quando vi sia un’organizzazione burocratica in cui siano previste nomine formali attuabili dagli organi di partito.
Lo strumento delle quote, come abbiamo già detto è controverso. Da tre punti di vista in particolare: 1) promuovendo le azioni positive nelle procedure di selezione delle candidature si crea un conflitto sul principio di eguaglianza, 2) favorendo l’ identità rispetto alle idee si rende problematico stabilire cosa debba intendersi per rappresentanza politica; 3)individuare le donne come una categoria politica conduce ad interrogarsi sugli altri tipi di identità politica (Krook, Lovenduski and Squires, 2009)
Il primo punto pone un interrogativo complesso, se, cioè si possano trattare i soggetti “da uguali” anche se “non in modo uguale” il che comporta mettere in discussione il concetto di merito. In quest’ottica le questioni raziali o di genere potrebbero essere trattate alla stregua del merito avendo come obbiettivo quello di una società più giusta ed integrata. Un tale punto di vista non è univoco come dimostrano i modelli di cittadinanza attuati nei contesti diversi. I paesi contraddistinti da un modello di cittadinanza liberale si basano su concezioni individualistiche e considerano le quote difficilmente conciliabili con la definizione di uguaglianza. Il modello di cittadinanza liberale non favorisce l’attuazione delle quote in quanto basato sull’uguaglianza delle opportunità ma non di risultato, dall’iniziativa dei singoli individui deriva la responsabilità di risultati ineguali.
Viceversa i modelli di cittadinanza consociativi o corporativi fanno leva sul partenariato e sulla contrattazione sociale e, pertanto, costituiscono uno scenario più favorevole per l’implementazione di misure come le quote di genere. Nei contesti associati ad un modello di cittadinanza consociativa o corporativa l’obbiettivo è quello di raggiungere l’uguaglianza nei risultati e, non semplicemente di opportunità, per cui il dovere di colmare i problemi sociali è a carico della società. Tuttavia in questi sistemi vi è la questione della considerazione dell’identità di genere e cioè se la categoria delle donne debba intendersi come unitaria o se, invece, non debba tenersi conto della stratificazione e della diversità che caratterizza questo gruppo. Infine un dubbio non trascurabile è quello della relazione con altri gruppi marginali: il genere deve essere considerato omogeneo rispetto a questi e, perciò, trattato nello stesso modo, oppure è possibile tracciare una differenza?
Se si prende il caso degli Stati Uniti si vede come le donne siano state equiparate agli altri gruppi svantaggiati, quali le minoranze razziali, e tutelate, al pari di queste, attraverso azioni positive temporanee e proporzionate alla condizione di disuguaglianza che intendono combattere (Beccalli, 1999).
L’esempio francese si basa su un presupposto diverso e, cioè, che le donne non siano uno dei tanti gruppi svantaggiati all’interno della società ma, l’altra faccia del genere umano, vista la presenza numericamente uguale nella società di donne e di uomini. Data questa premessa, le azioni di sostegno quali le quote, non sono lo strumento idoneo a favorire la parità se si cerca l’uguaglianza dei punti partenza, come fanno i sostenitori della democrazia “paritaria”.
3. La doppia preferenza di genere: un tassello del gender mainstreaming.
Come è stato già sottolineato, alcuni studi sull’impatto dei sistemi elettorali e la rappresentanza femminile, hanno concluso che i sistemi su base proporzionale giovano alle donne. Tuttavia in Italia il sistema proporzionale con liste plurinominali e voto di preferenza, accompagnato da una quota minima obbligatoria, non ha portato miglioramenti in termini di riequilibrio di rappresentanza di genere. Lo si può evincere dalle ultime due tornate elettorali regionali.
La legge regionale della Campania (L.r. n.4/2009) oltre a prevedere la percentuale prestabilita di candidature femminili (nessuno dei due sessi può essere rappresentato in misura superiore ai 2/3 dei candidati) come previsto da altri statuti, introduce una misura, la doppia preferenza, attraverso cui l’elettore può scegliere se esprimere una o due preferenze, in questo ultimo caso la seconda deve appartenere ad un genere diverso dal primo. La legge n.4 del 2009 contiene anche delle misure di promozione delle pari opportunità nell’accesso ai mezzi d’informazione, vi è infatti l’espressa previsione che i partiti politici garantiscano la presenza paritaria dei due generi nei programmi di comunicazione politica durante le elezioni regionali.
In Campania la doppia preferenza di genere ha permesso di incrementare la percentuale delle elette da 3,35% a 23,3%, da due a quattordici donne su sessanta.
Paradossalmente il governo italiano ha chiamato la Corte Costituzionale a pronunciarsi sulla legittimità di tale legge affermando una lesione del principio di uguaglianza e del diritto di elettorato attivo e passivo. L’argomento principale sostenuto dal Governo a fondamento della presunta illegittimità della legge campana, è stato quello che la doppia preferenza di genere dovesse essere intesa come azione positiva volta ad ottenere un’uguaglianza sostanziale. La Corte Costituzionale, viceversa, ha dichiarato l’infondatezza del ricorso ritenendo la misura della doppia preferenza di genere una misura antidiscriminatoria, la cui formulazione neutrale, non prefigura alcun rapporto con l’uguaglianza sostanziale.
Di fatto la doppia preferenza di genere in un sistema di liste aperte, plurinominali con voto di preferenza può giovare alle candidate donne in quanto in un sistema di liste aperte esse sono per lo più sfavorite. Tuttavia quello che, impropriamente possiamo definire correttivo, secondo la Corte non basta a “prefigurare un risultato elettorale”, ne tanto meno ad “alterare artificiosamente la composizione della rappresentanza consiliare” per cui va inquadrato nella categoria delle norme antidiscriminatorie a formulazione neutra in quanto “la nuova regola rende maggiormente possibile il riequilibrio ma non lo impone. Si tratta quindi di una misura promozionale ma non coattiva”.
In questa ottica la “doppia preferenza di genere” si inscrive in una logica diversa da quella di quella delle quote. Quest’ ultime nella percezione comune diventano una concessione circondata da un’ alea di paternalismo, per questo con il concetto di “democrazia paritaria”, espresso attraverso doppia preferenza di genere ed altre misure,si fa riferimento ad un diritto ed a un beneficio per la società intera.
Tuttavia, questa misura, difficilmente può essere effettiva senza una reale volontà del partito di mandare avanti le donne. Se, in generale, i sistemi proporzionali sono considerati favorevoli alle candidature femminili, con le liste aperte, il partito rimane il “gatekeeper” degli eletti o delle elette. E’ infatti emerso come gli elettori attribuiscano maggiore importanza al simbolo rispetto alla preferenza, per cui di fronte alle ricandidature di soggetti si sesso maschile già affermati ed inseriti nell’ organizzazione del partito diventa difficile competere soprattutto per quelle donne che sono “new comers”.
In generale il sistema della preferenza comporta campagne elettorali complesse e costose, data la competizione con i candidati della stessa lista. In generale i candidati che emergono in questo tipo di confronto sono quelli molto conosciuti e con ingenti possibilità patrimoniali. Questo tipo di risorse, materiali ed immateriali, sono mediamente meno diffuse tra le donne, per cui in un sistema con la doppia preferenza di genere, per avere più chances di farsi eleggere, la donna dovrebbe ricorrere ad alleanze con gli uomini candidati.
Il discorso probabilmente cambierebbe utilizzando la doppia preferenza in piccole circoscrizioni elettorali con liste di tre o quattro candidati composte per metà da uomini e metà da donne.
Le misure di democrazia paritaria come la doppia preferenza di genere forse contribuiscono ad eliminare l’immagine di “soggetti bisognosi” appartenenti ad una “categoria debole”. La sostituiscono con quella di soggetti non disponibili a negoziare tesi alla rivendicazione di un diritto pieno, ma, è lecito ipotizzare, se disgiunte dalle azioni positive e da una strategia di gender mainstreaming rivolta agli statuti dei partiti o seguendo la visione di Simon Weil, alla loro eliminazione, raggiungeranno l’obbiettivo della parità in tempi più lunghi.

 

Bibliografia

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