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“Tu mi fai girar, tu mi fai girar come fossi una bambola”. Ibsen al Mercadante


Al Teatro Mercadante, CASA DI BAMBOLA, di Henrik Ibsen, regia Filippo Dini, con Filippo Dini, Deniz Özdoğan, Orietta Notari, Andrea Di Casa, Eva Cambiale, Fulvio Pepe, scene Laura Benzi, costumi Sandra Cardini, luci Pasquale Mari, musiche Arturo Annecchino fino al 14 novembre 2021. Andate!

servizio e recensione a cura di Michele Infante, m.infante@rivistaorigine.it

 

“Tu mi fai girar, tu mi fai girar come fossi una bambola. Tu mi butti giù… come fossi una Bambola. Ma non ti accorgi che…” cantava Patty Pravo, e ci sarebbe stata bene ieri sera in scena. Una possibile sinossi in pochi versi.

Tu mi fai girar, tu mi fai girar
Come fossi una bambola
Poi mi butti giù, poi mi butti giù
Come fossi una bambola
Non ti accorgi quando piango
Quando sono triste e stanca, tu pensi solo per te.

Dobbiamo essere grati al Teatro Stabile di Napoli per averci regalato quest’autunno due spettacoli come Casa di Bambola di Ibsen ed Hedenplatz di Thomas Berhard. Sono due testi possenti, con una scrittura scenica a “doppia coppia”, complessa, tesa, testi che mettono in discussione tutto e dove tutto è sotto accusa: la società, il matrimonio, il materialismo, l’etica, l’amore, la famiglia, la rispettabilità borghese. Soprattutto la rispettabilità borghese. Perché esiste ancora una borghesia in Europa? Esiste ancora un’etica pubblica?

Casa di Bambola nella messa inscena di Filippo Dini è una storia di amore (Linde e Nils) e disamore (Torvald e Nora), o di non-amore, amore non ricambiato (Rank). Solita scrittura doppia coppia alla Shakespeare. Due solitudini che si incontrano, e due coniugi che si scoprono soli anche stando insieme, un terzo che è solo.
Alzi la mano chi non ha mai sentito un proprio partener dire “adesso dobbiamo parlare” e alla fatica ed ovvia et successiva domanda: “Non mi ami più?”, risposta: “No, non ti amo più”, “siamo diversi”, etc. Cade il velo di maia e dopo 12 anni insieme e tre figli, arrivederci e grazie, Nora se ne va alla ricerca di sé stessa (new age ante litteram), oggi andrebbe alla ricerca di un avvocato divorzista e del mantenimento. Ah, queste mogli di direttori di banca! Solo loro sanno rinunciare a tutto!
Tralasciamo l’incidente ed il pretesto per far cadere il velo di maia sul marito “meraviglioso” che non è poi tanto meraviglioso come credevamo, ed è il solito “stronzo” ed egoista (come nell’indimenticabile pubblicità del profumo). Oggi sarebbe una cosa da nulla, una firmetta. Ma pensiamo invece a quanto sono egoisti gli uomini innamorati, ma innamorati a modo loro dell’immagine della moglie o della donna amata, o della donna che vorrebbero (in questo caso tipico modello della donna bambola-bambina). Ma amare non è sempre una forma di egoismo? Anche perché non si può che amare il fantasma della donna, nessuno potrebbe amare l’essenza vera di una donna ed un uomo, anche perché nemmeno quell’uomo e quella donna saprebbero se interrogati dire qual è la loro essenza. Nora non si accontenta. Lo spettacolo si chiude con il solito personaggio con le valigie in mano. Secondo il regista Filippo Dini, tornerà dopo aver ritrovato se stessa, sui classici tutti hanno diritto a fare congetture. Di certo però sappiamo, non ci sarà una Casa di Bambola 2: il ritorno. Il teatro che è interrogazione profonda del senso e costruisce personaggi all’interno di scene non è come le inguardabili serie americane, serializzare è togliere senso alla scena. Netflix non c’è, e non siamo certo alla duemila e qualcosa puntata di un Posto a Sole!


Molte cose invecchiano anche nei classici, e la morale cambia, altre non finiscono di interrogarci dopo secoli. Ibsen giganteggia nella tensione scenica in crescendo, e Filippo Dini si cala nella parte del “buon marito” ma alla lunga è convincente, con un’interpretazione pulita e mai sopra le righe, e nel momento che tutti noi abbiamo atteso, finalmente in un dialogo – degno di questo nome (che da solo vale tutto lo spettacolo!) quello del disamore finale tra Nora e Torval – esprime tutte le sue capacità non solo di attore ma anche di autore di esperienza. Forse il suo personaggio è l’interpretazione più interessante, un marito-padre come c’è ne sono tanti e che tante donne cercano, una moglie-figlia più che Bambola, non il Torvald di Ibsen ovvio, ma è anche meglio e funziona meglio. I classici esistono per essere interpretati, altrimenti perché andremmo a rivedere lo stesso spettacolo?
Più acerba nel monologo finale, invece, dove lei nel momento apicale dice testualmente “io devo rimembrarmi” –  “Io devo rimembrami?” – è Deniz Ozdogan, non aiutata purtroppo dalla riscrittura del testo che sarebbe dovuta essere più coraggiosa. Superba però è la stessa attrice nella danza liberatoria che prelude alla liberazione dalle sottilissime e dolci catene di Casa di Bambola, un’allucinata tarantella Amalfitana a cura della coreografa Ambra Senatore.
Sicuramente se oggi da Sorrento dove era solito passare l’inverno, Ibsen sarebbe giunto a Napoli e avrebbe visto lo spettacolo, non avrebbe visto uno dei soliti suoi troll ma una donna di oggi, fiera, forte e volitiva. Siamo nel campo dell’estremo realismo e mimetismo, e nel contemporaneo sarebbe stato più accettabile rendere i dialoghi più credibili. Il problema con i classici è sempre un problema di lingua. Sono difficilissimi non da tradurre ma da rendere in un linguaggio contemporaneo allo spettatore. Le scene a cura di Laura Benzi meritano una menzione speciale, ci riconciliano con la magia del teatro, l’unico media senza schermo digitale rimasto, e dove la luce viene da fuori e non da dentro. Viva il teatro, andate al teatro prima che sia troppo tardi. Prima che le Posta del Cuore, le Barbare D’Urso e la fiction della Televisione di Stato avranno appiattito tutto e livellato ogni originalità. Al Teatro Mercadante, CASA DI BAMBOLA, di Henrik Ibsen, regia Filippo Dini, con Filippo Dini, Deniz Özdoğan, Orietta Notari, Andrea Di Casa, Eva Cambiale, Fulvio Pepe, scene Laura Benzi, costumi Sandra Cardini, luci Pasquale Mari, musiche Arturo Annecchino fino al 14 novembre 2021. Andate!

Ed adesso un po’ di critica per gli appassionati. Casa di Bambola non è un’opera delle più riuscite di Ibsen, non abbiamo in scena personaggio come il Peer Gynt o Edda Gabler, e la trasformazione del personaggio avviene senza un monologo convincente. Il Maestro dei Maestri (Shakespeare) ci ha insegnato che i personaggi in scena possono cambiare e trasformarsi ma deve esserci un soliloquio, devono parlare a voce alta davanti al pubblico, e noi dobbiamo assistere al loro cambiamento interiore o al loro “impazzimento”. Questo manca in questa commedia amara, Nora passa senza una vera “trasform-azione (scenica)” da bambola a donna. Il successo di Casa di Bambola è dovuto al fatto che è un’opera proto-femminista, e lo è certamente alla fine dell’Ottocento. Dalla custodia del padre a quella del marito, Nora vuole vivere vuole più aria, più luce. Ma il suo non è stato un matrimonio di interesse come quello di Nilde, sarebbe facile dire, “te lo sei sposata”, ok, “credevi che fosse diverso? E te ne accorgi dopo 12 anni che non era quello che credevi? Ci fai tre figli?”. Bella addormentata nel bosco ti sei svegliata!
Permettiamoci anche noi una congettura inutile: chissà cosa penseranno i figli di Nora una volta adulti della madre che li ha abbandonati, e con buona pace di Filippo Dini, non è mai più tornata, o almeno che io sappia Ibsen non ha scritto un seguito.
La vera femminista a detta del solo sottoscritto è Nilde, che si sposa prima per calcolo di interesse, aveva bisogno, lavora per bisogno, e decide di tornare con il vecchio amore il procuratore Nils, una volta rimasta vedova, sempre per bisogno. Nora è il desiderio, Nilde il solido bisogno, la bella necessità (Emerson), Nilde dice che il chiarimento farà bene, Nilde vuole vedere, ha sofferto ed ha capito.
Infine, curiosamente nel libretto che accompagna lo spettacolo ad uso della stampa il regista Filippo Dini crea un parallelismo tra Natale in Casa Cupiello e Casa di Bambole tanto da mettere in scena ad Oslo anche un presepio. Ovviamente, ripetiamo i discorsi sul teatro sono infiniti, come le assonanze e le dissonanze, ma se c’è una cosa in comune a cui potremmo pensare non è tanto l’ambientazione nel periodo natalizio delle due commedie amare, o il dramma familiare, ma è proprio quanto si diceva prima: il matrimonio d’interesse.
Luca Cupiello insieme alla moglie, ha spinto, o meglio “ha venduto” la figlia Ninuccia per soldi, per sistemarla, ad un uomo che lei non voleva. La povertà è il vero motore delle commedie di Eduardo De Filippo. In scena un povero che aspira a diventare ricco e borghese e va sempre male (come anche in Questi fantasmi, o il motore di Filumena Marturana, Napoli Milionaria, etc.). Ricchezza, povertà, rispettabilità, salire la scala sociale, scendere, siamo sempre lì, il dramma borghese in Ibsen o in Eduardo, allora, oppure oggi il tema delle canzoni dei rapper, di bellofigo o delle starlet della televisione, non erano ancora i tempi li a venire del reddito di cittadinanza e di leggings di pelle.
In attesa del dramma del reddito di cittadinanza di Stato, non ci resta che il dramma borghese.

Michele Infante