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Eduardo al tempo di Gomorra: il Sindaco del Rione Sanità tra Mister Jackie e Dott. House


Teatro Bellini, Napoli

di Michele Infante

Nel 1964 venne chiesto ad Eduardo un adattamento sia teatrale, sia cinematografico della sua commedia “Il Sindaco del Rione Sanità”, ne doveva essere protagonista Anthony Quinn che poi nel film del 1996 interpreterà proprio il ruolo di Antonio Barracano. Ma Eduardo rifiutò perché nell’adattamento americano la mafia e la malavita organizzata sarebbero stato il vero tema, suggestivo e accattivante sull’immaginario popolare allora come ora. Per Eduardo infatti, Antonio Barracane non è un camorrista (o non è solo tale), ma è un capo-popolo, un mediatore di conflitti sociali, un amministratore di giustizia privato, un paciere, un soccorritore pre-stato sociale, in pratica svolge il ruolo che oggi hanno al Sud, e a Napoli e provincia i consiglieri comunali con le loro micro-clientele, “fare i piaceri”, interessamenti, faccendieri vari; e nell’economia della rappresentazione il contesto serve a delineare il personaggio non il contrario. Ora ci ha pensato Mario Martone a fare quello che non riuscirono a fare gli americani: trasformare il sindaco del rione sanità (sindaco, sic!) in un boss di Gomorra. Si può partire dalla recensione di Giuseppe Montesano su il Mattino, per vedere l’influenza di Gomorra sugli intellettuali napoletani in modo trasversale. In questa recensione, lo scrittore e “lettore selvaggio” di Sant’Arpino, scrive che i personaggi in scena «sembrano tutti appena sbucati dalla realtà realissima della grande periferia malata di Napoli». La realtà realissima. Come l’acqua bagnatissima, è l’escamotage tecnico per costruire una vero-somiglianza ed una credibilità storico-sociale e di contesto. La realtà, il richiamo alla realtà, come se l’autore facesse cronaca e fotografia di una situazione sociale o di una scena, come se potesse sbirciare dentro un mondo sociale. Mario Martone legge nel palinsesto del testo di Eduardo, il suo personalissimo testo, lo riattualizza, e come scrive lo stesso Martone vuole «parlare al proprio pubblico non solo osando sul piano formale ma anche agendo in una dimensione politica». Peccato che la dimensione politica è del tutto assente dallo spettacolo di Martone e quella che è una commedia civile di ampio respiro diviene una serie televisiva modello Sky. Questa rappresentazione di Eduardo, vista al Teatro Bellini ed ottimamente interpretata dalla compagnia NEST, con Francesco Di Leva, Giovanni Ludeno, Adriano Pantaleo, è impensabile dopo l’affermarsi nell’immaginario di un certo tipo di boss, malavitoso, camorrista, con i suoi clichè e stereotipi, e con quei dialoghi che sono un lungo e atono “Io sono!”. E’ la potenza visiva di Gomorra più la serie televisiva meno il film, non il libro, ad accendere la luce su interni sociali costruiti sulla violenza delle relazioni personali, più che su quella fuori dalle mure domestiche. Il commissario Montalbano, Ricciardi, Pincopallo è un composto e buon borghese, una brava ed onesta persona, non è prepotente né violenta, e sempre dalla parte della giustizia, pagato con tanto di tredicesima a Natale come dipendete pubblico per amministrare la giustizia in interni borghesi “sani”, deve ricomporre fuori casa la violenza della società, dare un ordine alla società minacciata, salvare la patria, mentre lui già è salvo. In somma solite cose. Qui invece è diverso, Barracane è già condannato, di umili origini, pastore di pecore, è ai margini di quella società borghese ed affarista degli avvocati e dei tribunali, e come del suo rivale Arturo con le sua catena di panetterie nella Napoli bene. Niente arancini e ristorantini sul mare siciliano, nel Sindaco del Rione Sanità, la giustizia non segue le vie dell’ordine sociale, e non ci sono sirene di polizia (La Squadra, I Carabinieri 4, La polizia 6 e solite amenità della fiction Rai o Mediaset!), a farsene amministratore invece è Antonio Barracane, e quello che è minacciata è la sua stessa casa, la sua stessa famiglia allargata a figli ed ad uomini del suo clan. Il suo braccio destro vuole scappare, deve essere minacciato, il suo mondo si sta frantumando, il vecchio e deluso Barracane ha imboccato una strada senza via d’uscita. O con una sola via d’uscita, che è la stessa cosa: morte. Nei licei ancora insegnano agli studenti i tre stadi del pessimismo di Leopardi, fino allo stato del “pessimismo cosmico”, me nessuno riconosce in  Eduardo il più grande pessimista della letteratura italiana, il più amaro, il più rassegnato. Il gigante tragico Eduardo dove non c’è commedia fosse anche Natale in Casa Cupiello senza morti. Non c’è giustizia! Il Sindaco del Rione Sanità è una commedia-tragedia sull’impossibilità della giustizia sulla terra, senza speranza è infatti la frase pronunciata da Barracane: «la legge è fatta bene, sono gli uomini che si mangiano fra di loro». Se dopo Questi Fantasmi, La Elledieffe, la compagnia indipendente che porta il nome di Luca De Filippo, oggi diretta da Carolina Rosi, continua una ricerca sul sociale e sul contemporaneo è perché ha incontrato il NEST – Napoli Est Teatro di San Giovanni a Teduccio, uno dei quartieri più popolari e difficili di Napoli, dove un gruppo di giovani, attori, registi, scenografi e drammaturghi hanno ristrutturato una palestra e creato uno spazio per le arti. Solo in questo quadro si può da considerare, oltre agli esiti ambivalenti del palcoscenico che abbiamo già descritto, si può cogliere appieno la valenza del Il sindaco del Rione Sanità, che vede protagonista proprio il giovane Francesco Di Leva, co-fondatore del NEST insieme a Adriano Pantaleo, Giuseppe Miale Di Mauro e Giuseppe Gaudino. E forse proprio l’interpretazione di Francesco di Leva intesa, sofferta, nasconde anche la difficoltà di caratterizzare un personaggio Antonio Barracane, che Martone ha reso inverosimile nella sua subitanea redenzione. Nello spettacolo nessuno parla, la conversazione è un pugnale, una minaccia continua, un gioco di forza, qualcosa che tende al ridicolo della paura, alla contrapposizione della forza, e questo in ogni scena sempre. Barracane non è più il mito Robin Hood e l’Arsenio Lupen del ladro gentiluomo di Eduardo, non è più colui che amministra una piccola giustizia forse parziale ma sempre riferita ad un ideale comunitario, Barracane è ora nell’interpretazione e ri-attualizzazione ottimamente riuscita di Martone il vero e proprio boss di Gomorra di Sky. Quello di Martone è un Barracano-Savastano; con il secondo che non ha ne l’intensità visionaria ed universale, l’eroica ricerca della giustizia, ne la malinconia del Barracano di Eduardo. Si veda anche la recensione A questi fantasmi sempre della stessa compagnia e nello stesso teatro, Eduardo ed i fantasmi di Pirandello e Beckett.
L’innominato di turno, in questo caso il nostro protagonista, si converte repentinamente. Si immola al sacrificio nella scena della panetteria di Arturo (più repentinamente di quello manzoniano) dove viene ferito mentre voleva solo portare un messaggio di riconciliazione. Il Barracano-Savastano di Martone è un personaggio che non si sviluppa ma repentinamente cambia. In pochi secondi ed inaspettatamente (come mai avviene in quella che Montesano chiama la realtà realissima) il cattivo diventa non buono, ma di più, santo o cristo-centrico, si immola e si sacrifica per il bene di tutti. Lo spettacolo inizia con un rap, un lamento, una visione, finisce in una tragedia, in una palingenesi, Martone ne fa una favola contemporanea.
Se Eduardo aveva scritto una sorta di Gattopardo, un vecchio boss-capo popolo ormai in declino che non capisce più la società in cui vive e che sta cambiando con l’arrivo del primo boom economico ed il cambiamento dei costumi, Martone con il giovane attore Di Leva che fa gli addominali su panca, giovane e quarantenne ci parla di un momento di ascesa sociale, di consapevolezza, di forza fisica, energia sulla scena. La lettura di Martone: forza, violenza, spietatezza. Eccesso di sentimenti, cioè sentimentalismi, eccesso sia di bene, che di male, che di ossessioni omicide. Il Barracane di Martone non è più il “sindaco” (perché quel titolo? un solo elemento che dal testo di Martone ci possa portare al titolo) una figura di mediazione sociale, ma un ossessivo, smanioso, capace di preferire i propri cani alla moglie, feroce, violento. Se Don Abbondio diventa coraggioso e affronta i bravi, se Amleto decide in modo freddo di congiurare contro lo zio, se Pinocchio diventa un brava e saggio bambino e si rifiuta di cedere alla lusinghe della città dei balocchi; allora non sono più Don Abbondio, ne Amleto, ne Pinocchio, non sono più personaggi letterari. Il Barracane sembra essere Mister Jackie e dott. House, feroce, ferino, e poi si trasforma in una sorta di Gesù Cristo. Oscilla ondivago, forse folle. Feroce e tenerissimo come nessuno. Ci vuole la magia ed il fantastico, o il Manzoni dell’innominato per una tale repentina trasformazione senza costruire uno sviluppo narrativo; fino alla scena della bottega di Arturo. Come già notava Luciano Codignola, considerando la commedia nell’ambito più generale del pessimismo di fondo di Eduardo, difficile credere nel gesto finale del dottore, cioè che «una coscienza nuova fosse nata in lui». Ma Martone ci prova. Teatro sociale e d’impegno.
E’ destino solo dei grandi autori diventati ormai classici essere mis-undertanding, cioè essere letti ed interpretati in modo personale e soggettivo, l’eterogenesi dei fini e l’eterogenesi dei personaggi, non a caso il testo nella sua universalità ricorda un film Gran Torino di Client Eastwood, gang di strada ed un anziano Antonio Barracane-Eastwood che si lascia morire per salvare una micro-comunità, con tanto di testamento a favore del benessere postumo dei propri cani. L’immolarsi o la redenzione del cattivo, topos noto, assume ora un’ennesima forma, ma deve essere credibile nonostante il burbero personaggio (non a caso riesce meglio al vecchio, ancora meglio se già malato o nel fin di vita come in Gran Torino).
La realtà non esiste, e niente può essere realissimo, c’è solo uno spettacolo dal ritmo veloce, che non fa ne ridere, ne pensare, c’è solo brutalità in scena, la ragione, la corruzione, la violenza, senza mediazione, senza soluzione. C’è quello che ci deve essere, interpretato come deve essere interpretato. Da vedere, perché Martone condivisibile o no, ha realizzato in pieno la sua cifra stilistica, quello che voleva dire. Il suo Barracane esce da Gomorra la serie per entrare a teatro, riaffermando ancora una volta la grandezza mitopoietica di Eduardo e la transitorietà delle forme che di volta in volta assumono il romanzo di malavita. Oggi Martone, ieri Saviano, ieri l’altro la sceneggiata, domani avanti il prossimo!; ma Eduardo voleva dire e sottolineare anche altro, la camorra è solo la scena, Antonio Barracane è uno dei personaggi più complessi del teatro edoardiano, ambiguo come il Pasquale Lojacono di Questi fantasmi, Barracane è un cercatore di giustizia, consapevole che la giustizia non esiste su questa terra. La giustizia è impossibile. Perché il tribunale non è un’istituzione morale, e non tutte le questioni sono da “tribunale”. Un anelito inevitabilmente tragico.

Michele Infante