Tobias Wolff vive a New York e insegna alla Stanford University. E’ considerato il più importante autore americano di Short Stories ed è stato paragonato a Carver e Cheever. Nel 1994 ha ricevuto il Pen/Faulkner Award per il miglior romanzo per “The Barracks Thief”, una storia ambientata durante la guerra del Vietnam. Il suo libro di memorie Nell’esercito del Faraone, che narra la sua partecipazione a quel conflitto, è stato finalista al Booker Prize. In Italia sono stati tradotti i seguenti libri: “Nell’esercito del Faraone”, “Un vero bugiardo! (da cui è stato tratto un film con Robert De Niro ed Ellen Barkin), “Il colpevole” e la raccolta di racconti “Proprio quella notte”.
Qualche consiglio per costruire un buon racconto?
Non c’è molto da consigliare. A scrivere non si insegna. Tutto ciò che si può insegnare è l’umiltà di correggere e ricorreggere il proprio lavoro – essere, in un certo senso, editor di se stessi fin dalla stesura del manoscritto. Poi bisogna impegnarsi nella ricerca di uno stile proprio. Ma questo lo si può fare solo scrivendo e riscrivendo: e dunque lottando contro le insufficienze dei primi tentativi. Infine, conoscere bene quel che si vuol raccontare.
Sei considerato dalla critica un “maestro della Short Story”. Cosa significa questo per te?
Non molto in verità. La Short Story non è un genere come può esserlo il thriller o il racconto di nonfiction. E’ piuttosto un ambito, uno scenario. Oserei dire: un tipo di percorso. Ha una sua lunghezza e delle sue regole, che poi sono abbastanza semplici. Io poi non posso dire di “avere scelto” la Short Story: solo, ho iniziato a scrivere racconti brevi perché in un certo periodo non avevo tempo di scrivere nient’altro. Per uno scrittore, scrivere racconti è uno svantaggio nei confronti del pubblico: la gente è più abituata ai romanzi, poi spesso i racconti finiscono in modo imprevisto o, quel che è peggio per il lettore, quello che proprio non sopporta, finiscono in modo impreciso.
Puoi spiegarti meglio?
Gli equilibri turbati nel corso della vicenda non sono ristabiliti con la stessa chiarezza come di regola avviene in un romanzo. La gente legge un racconto di Carver o Maupassant – il racconto finisce e loro si chiedono: e allora, cosa succede dopo? Ma non è questo il punto, non credi?
Un racconto esemplare che consiglieresti come modello a chi si sta facendo la ossa con la scrittura?
Dipende. Non c’è “un” racconto che sia utile a tutti. Bisogna leggerne molti, è l’unica via. Se uno non ha gran tempo per leggere, forse dovrebbe concentrarsi su autori ricchi di umanità ma che non sconfinano nel pietismo, nella contemplazione gratuita del dramma. Come Cechov e Puskin.
Tu hai scritto un libro sulla tua esperienza nella guerra in Vietnam, “Nell’esercito del Faraone”. Leggendolo, ho pensato fin dal primo momento che era un libro fatto di storie e di dettagli piuttosto che uno sguardo d’insieme. Ne convieni?
Sono d’accordo con te. Questo non lo considero un difetto del libro: raccontare ciò che si è vissuto in guerra è sempre una sfida con la propria limitata visione delle cose nel contesto di una tragedia. Forse il limite di molti libri sul Vietnam è che hanno raccontato quella guerra come una tragedia americana, una tragedia della nostra coscienza. Il fatto di essere in parte ebreo e in parte irlandese forse mi ha dato un certo distacco – mentre scrivevo il libro. Il Vietnam non è stata solo una nostra tragedia come, se vuoi, la Guerra Civile americana. Ma non voglio sconfinare nella politica: quello che c’è in “Nell’esercito del Faraone” è solo la mia esperienza.
Che nel libro si spinge oltre gli accadimenti della guerra, fino al tuo ritorno in patria…
Sì. Credo che quella parte sia importante. Mi ero arruolato nelle Special Forces con molta leggerezza, come per sfuggire a qualcosa. Se un racconto di quella mia esperienza deve esistere, allora che sia alla presenza dei miei fantasmi – di quello a cui avevo tentato di sfuggire.
C’è un gran bel passaggio sulla scrittura proprio in quel libro. “La prassi della scrittura mi procurava un piacere immediato. Era il piacere di trovarmi dentro le parole, e di riordinarle, soppesandole una a una. E il piacere di immaginare la storia, la sensazione che potesse alla fine significare qualcosa. E soprattutto ero felice di scoprire che riuscivo a scrivere, comunque. Chi scrive lavora per un risultato che ci vorranno anni a ottenere, e che non è neppure certo. La scrittura esige queste cose, che poi restituisce con l’interesse: una forma di sorpresa che incoraggia a proseguire. Ogni nuova parola che scrivevo mi salvava la vita e io ne ero consapevole… ” Quando hai deciso di diventare uno scrittore?
A 14 a 15 anni. E dopo neanche per un istante ho mai pensato che avrei fatto un qualche altro mestiere. Ne ho fatti molti, ma erano tutti mestieri di passaggio – cose che facevo con l’idea fissa in testa di fare prima o poi lo scrittore e basta.
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