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Mamma di Ruccello: il testamento involontario.


Narcisismi della napoletanità degradata dal consumismo e dalle televisioni, come oggi dalle reti.

regia Antonella Morea
interprete: Rino Di Martino

Teatro Bellini, 14-19 Aprile 2015

di   MICHELE  INFANTE

Mamma di Annibale Ruccello al Teatro Bellini è un’opera testamento.

Non a caso, l’ultima opera messa in scena prima della tragica morta del regista. Paradossalmente, come ogni testamento, anche involontario, congiunge presente e passato. In questo testo Ruccello sente il bisogno di ritornare alle sue origini, a quell’humus linguistico e popolare, in cui l’autore, straordinario antropologo della napoletanità, decide di ritornare. Ruccello stesso, avrebbe avuto modo di dire: “Tendo molto a costruire per linguaggi anche i personaggi. Spesso individuo prima un modo di parlare e poi intorno a quello costruisco il personaggio vero e proprio. Alla fine mi accorgo di aver riprodotto delle stereotipie verbali che sono del mio ambiente, di mio padre, di mia cugina, pur cercando di evitare, come massimo dei mali, di far autobiografia a teatro. Finisco comunque per raccontare il mio ambiente”. Ma ora, nello spettacolo che va in scena al Teatro Bellini, in quel piccolo spazio che nel sottotetto accoglie il pubblico, uno spazio raccolto e ristretto, di magia ed astrazione, lo spettacolo trova un altro straordinario interprete: Rino Di Martino. Pochi spettacoli scritti da un autore per la propria personale interpretazione, trovano poi un interprete altrettanto personale, che rimescola le carte, per rimettere in scena sia se stesso, che la poetica dell’autore.

Quando finirà il teatro di essere la magia dei fantasmi che ci portiamo dentro?
Le storie delle quattro figure sembrano ritagliare persone della vita quotidiana di una Napoli forse ormai scomparsa, eppure ancora tutta se stessa nella sua cinica disillusione, nella cannibalesca ferocia delle classi popolari. Napoli città dove i poveri e le classi popolari sono cattivi in primis tra di loro, in quel luogo senza confini e forme che è la famiglia. Napoli non ama la famiglia, ma è semplicemente familista, è una città dominata dalla falsa retorica “dei figli so piezz e core”. Ruccello si scaglia contro la melensa retorica di una televisione e di una cultura stereotipata che fà diventare macchietta e luogo comune il rapporto tra la femminilità generatrice della madre e le Sue creature, una mamma che genera ma è anche sempre pronta a divorare.

Ma gli interni napoletani si trasformano in incubi quotidiani, i cui protagonisti sono le squallide figure di un intero paese che sembra aver smarrito nel tempo dei consumi, delle televisioni commerciali e delle canzonette la Sua anima. La sua tradizione e la Sua storia. E’ il corpo di Napoli e della Sua provincia, che vediamo agistarsi in scena. Non a caso, Rino di Martino sente l’esigenza proprio in questo piccole tragedie minimali di rimettere in scena il proprio corpo e le proprie possibilità di performer solista al centro della propria autorialità.

Mamme, mammoni, mammà…! quattro brevi atti unici nei quali la fiaba si trasforma in delirio, cattiveria, insensatezza. Nel primo episodio (“Le fiabe”, non a caso, una rivisitazione del cunto napoletano) e nel secondo (“Maria di Carmela”), il Male quasi strisciante si accompagna al ritmo ed alla musicalità della filastrocca. In questo modo lo spettatore che all’inizio non sa se ridere o piangere, poi capisce che nella vita piangere e ridere sono la stessa cosa. Un riso prima sboccato, poi cinico ed infine amaro.
Ruccello mette in scena personaggi tragi-comici nel pieno dei loro deliri verbali alterati geneticamente da un dialetto corrotto e violento.
Le storie, dunque: ne “Le fiabe”, una mamma narra la storia di Catarinella, Miezuculillo e del Re dei piriti. Con un secchio per lavare in terra nelle mani, imitano ognuno dei personaggi della storia familiare raccontata (Ce stava ‘na vota… ‘nu pate e ‘na mamma e ddoie figlie… una se chiamava Rosetta e ll’ata… cchiù grossa… se chiamava Catarinella), ed all’interno della storia prende corpo anche una filastrocca vera (Catarinella sì… Catarinella sò…) ed una nenia (Papà papà papà… tieneme astritto e nun me lassà…), prima dell’apparizione di un padrone di casa orribile (Miezuculillo, il cui destino di coprofago tralasceremo…) che ricorda forse una fiaba di Basile, quella in cui la ragazza mangia gli gnocchi destinati al padrone e viene arrestata. In Basile, vi è come in Hollywood il lieto fine, come nelle soap opera (tipica delgi anni 80’) il matrimonio tra lei, la solita Catarinella-Fanciulla povera ed il Principe, mentre qui, come una sorta di ammonimento Ruccello – in scena un gargantuelico Rino di Martino – si mangia sia Catarinella-Novella Cappuccetto Rosso sia l’immancabile e colpevole Mamma, con il suo desiderio di prepare le zeppole senza averne i mezzi. Il consumismo, il vivere al di sopra delle proprie possibilità e l’inevitabile punizione: That’s falks.

Ruccello dialoga con la tradizione orale della favola di apertura, che ricorda e rende bene l’abilità di Ruccello nel genere (aveva anche collaborato con De Simone alla raccolta delle “favole napoletane”), ma in tal senso, lo spettacolo registra anche la perdita di identità storica e culturale a causa prima delle influenze consumistiche imposte dalla nascente televisione commerciale, da un bisogno di consumismo e beni, e poi dall’avvento delle prime tendenze globalizzatrici, la cultura delle telenovele, dei Festival di San Remo e dei Festival Bar.

Gli eroi di Ruccello appartengono ad una umanità ambigua, ambivalente, sporca e, per certi versi, appunto, eroica perché vinta dalla storia e dal tempo. Sono le tre eroine, tre donne in tre storie tragiche. La “Maria di Carmelo”: vita quotidiana di una donna ospite di un manicomio perchè convinta di essere la Madonna, reso con la tesa ruvidità e scabrezza dei suoi deliri antichi e post-moderni insieme, ed un degradato rapporto con le suore. “Mal di denti”, tratto da “Notturno di donne con ospiti”, ovvero una mamma che nella sofferenza temporanea del mal di denti, nel giorno di Venerdì santo, scopre che la figlia Adriana è incinta; le sue considerazioni spaziano dal senso comune di vergogna/rabbia al rifiuto del pensiero di scendere di un gradino sociale (!) imparentandosi con il figlio di un operaio, fino alla tragedia del suicidio della ragazza.

Ed infine, il monologo che chiude l’opera: “La telefonata”. In questo monologo, un’unica, lunga e concettualmente infinita telefonata la Mamma – nel preoccuparsi dei massimi sistemi dell’umanità ovvero telenovelas e gossips – quelle che oggi sarebbero l’umanità in scena delle defilippomaria e barbaradurso e dei verissimo – segue estreme ed allucinanti presenze televisive mischiate a quadretti familiari che ne vogliono imitare i fasti – e mentre fà ciò contemporaneamente bada o meglio strilla ai suoi figli e nipoti, a cui sono stati imposti nomi delle soap-opera allora in voga: Veruska, Morgana, Ursula e Isaura, in una simbolica perdita della tradizione e del rapporto con il proprio territorio fisico, e nell’iniziale transisto verso quello mediale. Qualche anno dopo a Napoli non a caso sarebbero nati tanti Diego (medialità calcistica), come oggi negli anni Dieci,  tante Sofie (bimbe della neo-borghesia fintamente sapienziale). Rucccello conosceva bene questo mondo popolare anche come studioso delle tradizioni e soprattutto dell’antropologia, nel periodo in cui era di moda tra i giovani leggere i saggi di Ernesto De Martino e di Levi Strauss.
L’insopportabile livello di infima modernità dove le relazioni umane si degradano per opere di Star televisive, sogni ed ambizioni sbagliate, suore bigotte, ed una messa in scena complessiva in grado di far toccare quasi fisicamente agli spettatori prima un lirismo del disagio, poi una ineluttabilità del presente malato. Con terremoto finale! Sembra dire Ruccello, come è un terremoto che conclude lo spettacolo, ma non interrompe il chiacchiericcio sterile delle telefonata dell’ultima mamma, e noi diremmo oggi dello sterile whatsapp.
Annibale Ruccello aveva debuttato con il suo capolavoro Ferdinando al Teatro Comunale di San Severo il 28 febbraio 1986.
Sembrava aver con tale spettacolo interrotto il suo dialogo con la contemporaneità, sembrava aver cercato lo stile ed i modi dell’arte e dell’ambientazione storica per i suoi temi; ma qualcosa – forse il presagio della fine tragica sull’autostrada Napoli-Roma – fa sentire a Ruccello il bisogna di una sorta di ritorno alle origini. Perché proprio Mamma: piccole tragedie minimali che va in scena il 23 luglio 1986, nell’ambito del Progetto Dioniso di Montalcino, sarà la sua ultima esibizione. Nessuno può fuggire alle sue origini, nessuno può andare oltre il proprio passato. L’arte traborda nella vita, il grande artista mette in scena se stesso, irrisolto, dolorante, feroce, caustico, ironico, grande come i grandi o piccolo come tutti noi spettatori?

Eppure grazie alla sofisticata ed attenta regia di Antonella Morea (la scelta di riempire il palcoscenico di sacchi di plastica neri forse la meno felice, resa stereotipo dalla cronaca recente) e attraverso la straordinaria interpretazione di Rino di Martino, Annibale Ruccello rivive ancora in scena, come tutti i grandi del teatro che non hanno smesso di dire – e nel caso di Ruccello – di gridare quello che avevano da dire alle nostre coscienze addormentate all’ora davanti alla Televisione, oggi davanti allo schermo di un pc o di uno smarth-phone. Persi nel delirio narcisista delle reti.

Michele Infante


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