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L’auto compiacimento dell’artista nella società dello spettacolo


L’auto compiacimento dell’artista nella società dello spettacolo
ovvero il Digiunatore di Kafka va in scena al Teatro Bellini.

di Michele Infante

“La cena è servita”così la traduzione in tempo reale dal lituano accompagna l’apertura della scena di A Hunger Artist – il Digiunatore in scena al Teatro Bellini, per l’unica data italiana dello spettacolo di Eimuntas Nekrošius, un piccolo evento teatrale nel suo genere, andato in scena ieri sera al Teatro Bellini. Ma poteva essere tradotto anche con “Il pranzo è servito” come il titolo di una fortunata trasmissione televisiva anni 80’, madre di tutte le trasmissioni di cucina possibili, e oggi dominanti. Oppure con il neologismo “impiattare”, l’arte di presentare visivamente in modo gradevole e sofisticato il cibo nei piatti, oggi di moda in tante trasmissioni dedicate al cibo “visivo” (cioè il cibo che si vede solo). Ma nel Digiunatore il cibo in scena comparirà una sola volta, e sarà fatale. Così mentre “Dietologo” è la targa che sempre più spesso in questi anni ‘10 del XXI secolo compare fuori da portoni e case delle nostre città di grassi, obesi, celiaci, intolleranti o semplicemente sovrappeso, simbolo professionale di una società bulimica che insegue un sogno impossibile di leggerezza nell’avidità: il digiunatore conserva una carica sovversiva, sembra un personaggio uscito da un tempo remoto e lontano. Cibo e dieta come ovvio non interessano Kafka, ed è subito evidente che il “digiunare” sta per qualche altra cosa. Cosa? Proveremo a ragionarci qui.
L’ultima creazione di Eimuntas Nekrošius, il regista lituano di fama internazionale, si presta a numerose interpretazioni, singolari metafore, ri-attualizzazioni in chiave contemporanea, etc. e l’aderenza quasi ossessiva al testo di Kafka che di solito aiuta, in questo caso lo rende ancora più enigmatico. Chiunque abbia ragione, e qualsiasi siano i significati dell’opera, resta l’interpretazione teatrale magistrale di Viktorija Kuodyté e del trio di attori che la affiancano – Vaidas Vilius, Vygandas Vadeiša e Genadij Virkovskij – talmente viva e fisica che lo spettatore è coinvolto, al punto tale da non avere il tempo (né la voglia) di scavare alla ricerca di sfumature né filosofiche, né sociologiche, ne antropologiche. Consapevoli, però, che il nostro sguardo di spettatori è sempre parziali, proviamo qui a dare la nostra “originale” – non a caso la rivista si chiama Origine – lettura e interpretazioni di semplici spettatori. Innanzitutto a differenza del testo di Kafka non vi è la gabbia in scena. La gabbia dove è costretto a stare il digiunatore è solo evocata, come tutte le gabbie psicologiche ed interiori che noi abbiamo nella testa e che naturalmente non si vedono. Eimuntas Nekrošius lavora ad una sottrazione, nessuna scena di uomo o meglio di donna in gabbia in questo caso, ci sono custodi si, ma la nostra digiunatrice si muove libera ed a volte anche giocosa sul palcoscenico. La chiave stilistica Eimuntas Nekrošius, mai didascalico, è proprio quella di non essere mai banalmente visivo, cercando di interrogare i grandi testi per coinvolgere il pubblico in un dialogo che ne permetta una nuova e ricca lettura anche critica, pensiamo al suo spettacolo Faust tratto da J.W. Goethe, un’indimenticabile produzione del 2006, che fu anche a Napoli al Teatro Mercadante. Inoltre, il testo scelto non presenta drammaturgia. Nessuno scambio di battute tra i tre guitti in scena ed il personaggio femminile che interpreta il digiunatore, e che spesso parla di sé in terza persona. Lo spettacolo alterna diversi registri linguistici: ironia, elementi grotteschi, messa in scena surreale si mescolano ed accompagnano il testo di Kakfa, la cui voce è quella del classico narratore onnisciente fuori-scena. Se non è proprio il fantasma dell’anoressia quello che si aggira sulla scena, ma il dramma del desiderio di un riconoscimento sociale impossibile ed assoluto, in un clima di anaffettività totale – il protagonista non ha nessuna relazione – certamente questo desiderio di essere accettato e di avere successo per mezzo del digiuno non è molto diverso dalla psicologia di tante modelle o ragazze di oggi. Un desiderio di accettazione e di successo. Ma perché scegliere il digiuno, perché fare del digiuno la propria spettacolarizzata professione?
Pensiamo di poter dire che il digiunatore è un artista di tipo moderno, questo è il vero nocciolo della questione, come dice il titolo, come certifica la sua esibizione pubblicizzata per la città. Un artista professionale, che fa arte per professione, per mestiere quello che digiuna. “Correte, correte gente, venite a vedere l’uomo capace di non mangiare per 40 giorni!”. Anzi è molto orgoglioso del suo mestiere, anzi provoca la società e chi non crede che egli veramente digiuni, compresi i suoi custodi che credono che in fondo sia un trucco, che magari di notte o di nascosto mangiucchi qualcosa. Il sospetto che da sempre la società ha verso gli artisti, fingitori, bugiardi, furbi, maschere, ciarlatani diviene così è la cifra stilistica di saltimbanchi della caratterizzazione dei tre attori lituani Vaidas Vilius, Vygandas Vadeiša e Genadij Virkovskij. Ma il digiunatore è anche ironico ed orgoglioso, ad esempio fa portare a sue spese una ricca colazione ai carcerieri-custodi che durante la notte hanno vegliato con lui affinché non mangiasse nulla come da contratto. Lui ama maledettamente e veramente quello che considera il suo mestiere, e la sua vocazione. Maledettamente, cioè in modo malato perché ossessivo, e veramente perché è vero, lui è autenticamente un digiunatore felice, ricercatore dell’assoluta magrezza e libertà dal bisogno. Discorsi che si possono ascoltare per ogni tipo di autentico artista. Infatti, “L’artista è un morto di fame”, o con il fare l’artista si fa la fame, è un’altra traduzione possibile del titolo – che personalmente avremmo preferito – perché tradurre è sempre tra-dire, dire tra due cose, due lingue, due autori, Kafka e Nekrošius, e così lo spettatore in sala piano piano intuisce che la fortuna del Digiunatore sta scemando, egli non ha più successo, si avvia ad essere un fallito, un perdente ossessivo. Quando arriva la sazietà del pubblico, non finisce la sua fame, fame di cosa? Al posto del cibo il digiunatore vuole su di sé gli occhi degli spettatori. Il Digiunatore ha fame di audience, attenzioni del pubblico. La sua fame fisica è sostituita dalla sua fame di successo, ora non può più gloriarsi delle così delle sue coppe, titoli, riconoscimenti, scudetti gli ha fatto vincere la sua arte, un’arte che non interessa più. Il pubblico non è più interessato a vedere, ed a pagare per vedere l’uomo che digiuna, e tutto questo per ironia della sorte proprio ora che cominciava ad essere veramente bravo a digiunare. Ora che poteva farlo illimitatamente e senza limiti. Bisogna adattarsi. Non rimane quindi che trovare impiego come “bestia da attrazione” tra le bestie di un circo. Un freak, un fenomeno da baraccone. Ma le cose non vanno meglio. Anche nel circo, indifferente e dimenticata, l’arte del digiunatore in declino, finisce per essere ignorata, il digiunatore cade nell’oblio e la sua gabbia non raccoglie più gli occhi curiosi dei bambini e dei passanti, che ora filano dritto per vedere gli altri animali feroci in gabbia e non guardano più nella “sua” di gabbia. Non a caso, poi infine, nella “sua” gabbia sarà sostituito da una bella e giovane pantera che invece affascina gli spettatori. La pantera nera: immagine di giovinezza e forza, sensuale e possente non solo sostituisce l’estrema sfida di astrazione, e di “leggerezza” del nostro Digiunatore, ma ne è anche la figura opposta, sportiva e vincente. L’epilogo per il nostro artista della fame è già scritto: senza impresario, senza successo, dimenticato nella sua gabbia, ignorato da tutti, il digiunatore viene trovato sotto la paglia, lasciato a morire di fame. I tre guitti in scena diventano allora custodi pietosi, e economi amministratori una gabbia vuota non serve. Ma quando lo scuotono, il digiunatore è ancora vivo, perché ormai il vero artista del digiuno non può più morire, la sua sfida di sopravvivere senza cibo ha superato il suo limite naturale di 40 giorni, perché quando digiunare è ragione di vita, non si può più morire. Così egli viene tirato fuori scheletrico da sotto la sua paglia e riportato alla vita. Ma quale vita può avere un’artista professionale senza pubblico e senza successo, allora il digiunatore constatando la sua insignificanza per il pubblico, in una scena clou che Nekrošius decide di sintetizzare in pochi secondi, decide che non gli resta che morire, e per la prima volta in scena compare il cibo: sotto forma di una torta di compleanno con candeline. Avidamente e ferocemente in pochi istanti divorata dal digiunatore e dai custodi del circo, la torta di compleanno diventa il suo amato ed atteso carnefice, come succederebbe naturalmente a chi non segua apposita dieta dopo lunghi periodi di digiuno e come aveva sempre precedentemente fatto il digiunatore sotto la guida del suo impresario. Ma ora non c’è più pubblico, non c’è più impresario, non c’è più arte da mostrare in scena, non resta che morire ed essere sepolto con un po’ di paglia. L’oblio dell’artista. E così il climax è un ossimoro: il digiunatore decide di suicidarsi mangiando. Kafka in questa parabola, con il suo solito humor nero, prende in giro tutti gli artisti, i professoroni e gli intellettuali sempre a soffrire per mancanza di riconoscimento, di un pubblico che li gratifichi attraverso i loro libri, quadri, istallazioni, poesia, etc. (simbolica è la scena dei premi, targhette, statuette che egli vezzeggia e bacia). Il digiunatore mette in mostra la propria forza di volontà, ma più forte è la volontà di piacere alla gente, pubblico che poi come ovvio lo abbandona. Ma in questo suo ultimo racconto – scritto poco prima di morire – Kafka prende in giro anche questo desiderio in se stesso, da qui l’istruzione al proprio amico Max Brod di bruciare tutti i suoi scritti dopo la sua morte. Non potendo scrivere per il camino, o per il proprio cassetto o baule (come Pessoa), lo scrittore-digiunatore vuole far mostra della propria bravura. Invece di scrivere per la propria insignificanza, scrive per piacere, e muore nel non piacere più. L’autocompiacimento dell’artista è un tema antico della satira, con il suo apogeo aristofanesco, è già presente in opere greche e latine, ma in questo caso assume toni inquietanti ed amari, e chiede un amaro ripensamento a chi si autodefinisce artista o intellettuale ed aspira ad un riconoscimento sociale, inseguendo i gusti mutevoli o lo sguardo del pubblico.
Mentre l’artista del digiuno canta una canzone, salta, balla, oppure mentre tenta di confutare un breve trattato medico sulla digestione; e tutto appare sorprendentemente inquietante, fisico e materico, si respira quel minimalismo ascetico tipico Kafka che getta un interrogativo angosciate sul nostro desiderio. Cosa desideriamo veramente? Cosa non possiamo più desiderare? E, soprattutto, i quattro interpreti riusciranno ad evocare in scena l’interrogativo ultimo di quella che qualcuno definisce “anima”, il superamento del senso dell’esistenza animale, il desiderio kafkiano dell’indistruttibile. Il dato di fatto che siamo tutti dei freaks nel grande circo della vita. Come scrive Kakfa nel suo racconto capolavoro Il Caccaitore Gracco: «Il fatto che non ci sia altro che un mondo spirituale ci toglie la speranza e ci dà la certezza».

MICHELE INFANTE

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